JURIJ LUCENKO CONDANNATO: L’UCRAINA IN EUROPA E’ SEMPRE PIU’ UN’UTOPIA
L’ex-Ministro degli Interni condannato a quattro anni di reclusione e alla confisca dei beni immobili. Dopo Julija Tymoshenko, è la seconda guida del processo democratico ucraino del 2004, noto come Rivoluzione Arancione, ad essere vittima della repressione politica organizzata del regime del Presidente, Viktor Janukovych. L’Occidente protesta
Dopo Julija Tymoshenko, anche l’altro principale protagonista del processo democratico in Ucraina è finito dietro alle sbarre in definitiva. Nella giornata di lunedì, 27 Febbraio, l’ex-Ministro degli Interni, Jurij Lucenko, è stato condannato a quattro anni di carcere, alla confisca dei propri beni immobili, alla privazione del riconoscimento dello status di funzionario emerito dello Stato, e al pagamento di due multe onerose.
Lucenko, Leader della forza politica dell’Opposizione Democratica Narodna Samooborona, è stato riconosciuto colpevole di abuso di potere per avere imposto l’aumento della pensione del proprio autista, Leonid Prystupljuk – anch’egli condannato a tre anni di prigione con la condizionale – gonfiato le spese per l’organizzazione del Giorno della Polizia del 2008 e del 2009, ed essersi intromesso per inquinare le indagini inerenti l’avvelenamento ai danni dell’ex-Presidente, Viktor Jushchenko, durante la campagna elettorale del 2004.
Affaticato da una detenzione preventiva che lo ha costretto al carcere in isolamento dal 26 Dicembre 2010, Lucenko – che ha dovuto assistere a tutto il processo da dietro le sbarre in un apposito angolo dell’aula del tribunale – ha rigettato ogni accusa, e ha ritenuto che il verdetto è stato dettato alla Corte dalle Autorità politiche come omaggio per il Presidente, Viktor Janukovych: giunto al secondo anniversario del proprio insediamento.
In effetti, molti sono i dubbi che la sentenza ha sollevato, dal momento in cui dell’ottantina di testimoni che sono stati interrogati durante il processo – avviato nel Maggio 2011 – solo tre non hanno scagionato Lucenko, e non ne hanno riconosciuto la totale innocenza.
Del resto, lo stesso Lucenko gode di una fama di gran lunga migliore di molti suoi colleghi in Ucraina: vice-Leader del Partito Socialista di Ucraina, poi a capo delle proteste contro la torbida presidenza di Leonid Kuchma – caratterizzata da repressioni a danno di politici e giornalisti – protagonista della Rivoluzione Arancione, e Ministro degli Interni nei governi filo-occidentali di Julija Tymoshenko, l’esponente dell’Opposizione Democratica non ha mai abusato del suo peso politico per arricchirsi o esportare propri capitali all’estero in qualche paradiso fiscale.
Un esempio molto raro sulle Rive del Dnipro, al punto che in molti attribuiscono la sua condanna alla precisa volontà politica del Presidente Janukovych di eliminare avversari politici che, nel breve termine, avrebbero potuto insidiare la sua leadership – come normalmente avviene in ogni democrazia.
Immediate sono state le reazioni della Comunità Occidentale, turbata all’unisono per un verdetto dalla dubbia regolarità. Con una nota congiunta, l’Alto Rappresentante della Politica Estera UE e il Commissario Europeo all’Integrazione e all’Allargamento, Catherine Ashton e Stefan Fule, hanno ritenuto il processo non in linea con gli standard internazionali di imparzialità e neutralità della magistratura dalla politica, e hanno ritenuto tale episodi un’ulteriore macigno che rende sempre più lontana l’Ucraina dall’UE.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha invitato le Autorità ucraine a liberare Lucenko, e a garantirgli la partecipazione alle prossime elezioni politiche. Secondo gli USA, il trattamento riservato all’ex-Ministro degli Interni e all’ex-Primo Ministro, Julija Tymoshenko, pongono un serio interrogativo sull’effettiva esistenza in Ucraina di una democrazia.
“La condanna dell’ex-Ministro degli Interni è l’ennesima prova della mancanza dello stato di diritto in Ucraina – ha dichiarato, con una nota, il Capo del Foreign Office della Gran Bretagna, David Livington – ed è stata dettata da un’evidente motivazione politica. Kyiv, nei fatti concreti, dimostra di non tenere all’integrazione europea”.
Dal canto suo, il Ministero degli Esteri della Polonia ha diffuso una nota in cui ha espresso fiducia nella conduzione di un processo d’Appello – a cui la Difesa di Lucenko ha dichiarato di voler fare ricorso – in linea con gli standard internazionali, in grado di garantire all’esponente dell’Opposizione Democratica la possibilità di difendersi in un procedimento equo e giusto”.
L’Ucraina è una dittatura
Innumerevoli le condanne espresse anche dalle diverse forze dell’Opposizione Democratica, tra le quali spicca per importanza quella della sua Leader, Julija Tymoshenko: costretta a sette anni di detenzione per una simile condanna politica sentenziata l’11 Ottobre 2011.
Secondo quanto riportato al suo avvocato, Serhij Vlasenko, il processo a Lucenko non ha nulla in comune con la democrazia e gli standard europei, ed è frutto di un ordine diretto del Presidente Janukovych, il quale, nelle pubbliche occasioni, cerca invece di convincere i suoi colleghi e i Capi di governo europei della sua innocenza.
“Una persona che ricopre la guida di un Paese non arriva a comprendere concetti elementari – ha dichiarato Vlasenko all’uscita della colonia penale femminile Kachanivs’kyj di Kharkiv, riportando le parole della Tymoshenko – Nelle vesti di garante della Costituzione, il Presidente dell’Ucraina avrebbe dovuto reagire a una sentenza in pieno contrasto la Carta Suprema. E’ la prova che Kyiv non è amministrata da un Capo di Stato europeo, ma da un dittatore, simile a molti altri nel Nordafrica”.
Matteo Cazulani
REFERENDUM DI SANGUE IN SIRIA.
Il presidente siriano, Bashar al Asad indice una consultazione per apportare mutamenti cosmetici al regime, ma reagisce all’invito di disertare le urne da parte dell’opposizione aprendo il fuoco sui civili. Le condanne dell’Occidente e il supporto della Russia alle Autorità di Damasco
Tra le urne e il fuoco dei miliari. Questa è l’atmosfera nel quale, Domenica, 26 Febbraio, si è svolto in Siria il Referendum per la riforma della Costituzione: un’iniziativa intrapresa dal Presidente, Bashar al-Asad per cercare di dare un volto democratico al regime di Damasco.
Nello specifico, il Referendum prevede l’evoluzione dello Stato da un sistema mono-partitico ad un pluripartitismo destinato a formare un governo di coalizione in un nuovo ordinamento in cui, tuttavia, il grosso del potere è mantenuto dal Presidente.
A osteggiare l’iniziativa è stata l’opposizione, che ha definito il referendum una “farsa”, e ha invitato i siriani a boicottare le urne. Un’indicazione tuttavia che non tutti hanno condiviso: in molti hanno ritenuto la partecipazione alla consultazione un’opportunità unica da sfruttare per allentare le tenaglie del governo voluto da Asad.
Di carattere opposto alle sperate aperture democratiche è stata la reazione dell’esercito, che, secondo le opposizioni, hanno aperto il fuoco nelle città periferiche di Homs, Idilib, Deir az-Zur, e Dabaa, provocando la morte di circa 100 civili.
Pronta la critica dell’Occidente, che ha contestato duramente le violenze perpetrate da Damasco. Il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, si è appellata ai businessman e ai soldati affinché non appoggino le iniziative del presidente contro i propri connazionali e, con un gesto di coraggio e di eroismo patriottico, decidano di appoggiare l’opposizione.
Concorde anche il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, che ha concordato sul definire una “farsa” il referendum, mentre il suo collega turco, Ahmet Davutoglu, ha illustrato come non sia ipotizzabile invitare i cittadini alle urne dopo avere aperto il fuoco su di essi.
Contrari alle critiche Russia e Cina, che appoggiano il regime di Damasco in sede ONU e, nel caso di Mosca, anche con l’appoggio militare della propria flotta. Nella giornata di giovedì, 24 Febbraio, i Ministri degli Esteri russo e cinese, Sergej Lavrov e Yang Jiechi, hanno concordato una posizione unica che l’asse Mosca-Pechino intende mantenere per guidare sotto la propria egida le trattative tra Autorità e insorti democratici.
Il regime a gestione famigliare che spara su democratici e giornalisti
Il Partito BAAS governa incontrastato in Siria dagli anni ’60, mentre dagli anni ’70 il potere è stato esercitato solamente dalla famiglia degli Assad: dapprima da Hafiz-al-Asad, poi dal figlio, Bashar.
Dopo tutti questi anni di mancata democrazia, i siriani hanno deciso di cogliere l’onda democratica della cosiddetta primavera araba per ribellarsi ad un oppressione che ha reagito con la violenza, provocando, dal 2011, circa 7 Mila vittime. Tra essi, anche giornalisti, tra cui, mercoledì, 24 Febbraio, la fotoreporter francese, Remy Ochlik, e la corrispondente del Sunday Times, Mary Colvin.
Matteo Cazzulani
Anche la Polonia scarica Janukovych
Nel corso del resoconto dei primi cento giorni di governo, il Primo Ministro polacco, Donald Tusk, denuncia il regresso politico in atto in Ucraina, a causa del quale tutti gli sforzi profusi da Varsavia per l’integrazione di Kyiv nell’Unione Europea sono stati vanificati. Il valore storico dell’evento, e la mancata risposta da parte del Presidente ucraino: sempre più lontano da Bruxelles, e dipendente dalla Russia sul piano energetico e politico
Anche il più fedele alleato ha tirato le orecchie al presidente ucraino. Nella giornata di giovedì, 23 Febbraio, il Primo Ministro polacco, Donald Tusk, ha riconosciuto che l’Ucraina, malgrado gli sforzi profusi dalla Polonia, ha perso le ultime chance di integrazione nell’Unione Europea a causa dell’ondata di repressione politica scatenata dal Capo di Stato, Viktor Janukovych, nei confronti di una decina di esponenti del campo arancione: tra cui la sua Leader, Julija Tymoshenko.
Nello specifico, Tusk, impegnato nel resoconto in Parlamento dei primi cento giorni di governo, ha evidenziato come la Polonia sia riuscita, nel secondo semestre del 2011, a condurre la Presidenza di turno dell’Unione Europea evitandone la rottura interna tra i Paesi aderenti aderenti alla moneta unica e quelli ancora fuori dalla zona euro. Inoltre, il Primo Ministro ha illustrato come, nel medesimo periodo, Varsavia si sia confermata leader nella messa a punto delle politiche UE nei confronti dei vicini orientali.
“L’Ucraina ha perso il suo tempo nel percorso di integrazione nell’Unione Europea – ha dichiarato il Primo Ministro polacco durante il suo expose al Sejm – e diffuso il sentore che l’ingresso di Kyiv nell’UE e oggi congelato. Questa situazione e direttamente provocata dalla situazione politica sulle Rive del Dnipro, che può essere definita come un vero e proprio regresso della democrazia”.
A rendere storiche le parole di Tusk e il particolare rapporto che la Polonia ha avuto con l’Ucraina dall’ottenimento dell’indipendenza dall’Unione Sovietica da parte di ambo gli Stati. Consapevole che senza l’amicizia e la fiducia di Kyiv, Varsavia – e l’Europa tutta con lei – sarebbe costretta ad una subalternità eterna alla Russia, i governi polacchi – salvo rare eccezioni – hanno sempre appoggiato le aspirazioni euro-atlantiche degli ucraini, e si sono presentati come veri e propri avvocati del Paese vicino in sede UE e NATO.
La Polonia ha saputo superare odi secolari dovuti ad una storia di guerre e divisioni, per prima ha riconosciuto l’Indipendenza dell’Ucraina nel 1991, e con essa ha sempre mantenuto aperto il dialogo anche con l’Amministrazione Kuchma, la quale, a causa di corruzione e repressione politica a carico di oppositori e giornalisti indipendenti, si e trovata isolata sul piano internazionale.
Dopo avere salutato con favore la realizzazione del processo democratico del 2004 passato alla storia come Rivoluzione Arancione, Varsavia ha ulteriormente stretto i rapporti con i governi ucraini, e ne ha appoggiato le domande di integrazione nell’Unione Europea e nella NATO: non senza evitare palesi scontri con gli Stati dell’Europa Occidentale – Germania e Francia in primis – riluttanti nei confronti dell’adesione dell’Ucraina alla comunità euro atlantica per non irritare la Russia.
Anche dopo la salita al potere di Janukovych, e gli arresti politici a carico di una decina di esponenti dell’Opposizione Democratica, la Polonia ha fatto di tutto affinché Bruxelles chiudesse un occhio sulla condotta del Presidente ucraino, e firmasse l’Accordo di Associazione UE-Ucraina: documento storico con cui l’Unione Europea avrebbe riconosciuto a Kyiv lo status di partner privilegiato oggi goduto da Norvegia, Svizzera e Islanda.
Tuttavia, il 19 Dicembre 2011, l’accanimento giudiziario nei confronti della Tymoshenko – a cui sono stati sentenziati due arresti sulla base di processi irregolari organizzati su prove incerte – ha portato l’UE a congelare il trattato: ufficialmente, per palese mancato rispetto da parte dell’Amministrazione Janukovych dei parametri di democrazia e libertà, la cui osservazione e condicio qua non per l’appartenenza alla comunità del Vecchio Continente.
Da parte del Presidente ucraino e mancata una risposta chiara e convincente. Nonostante i ripetuti inviti di UE, USA e NATO al rispetto delle regole della democrazia, Janukovych ha inasprito la repressione nei confronti dell’Opposizione Democratica e della stampa indipendente, esautorato il Parlamento di poteri per accrescere i propri, e, negli ultimi tempi, attuato un rimpasto di governo per rafforzare il suo diretto controllo sui settori nevralgici dello Stato: tra cui la politica finanziaria ed economica.
Isolato dall’Occidente, Janukovych ha difficoltà oggi a gestire i rapporti anche con la Russia: finora sua preziosa alleata. Alla ricerca di uno sconto sulle tariffe per il gas importato da Mosca, Janukovych dapprima ha concesso invano il prolungamento della permanenza della Flotta Russa del Mar Nero in Crimea fino al 2022, poi, nel Dicembre 2011, ha riaperto i negoziati per la revisione dei contratti con i russi.
Il caso ucraino e un problema europeo
Questi ultimi, tuttavia, hanno posto come condicio sine qua non per ogni ritocco al ribasso della bolletta la cessione dei gasdotti ucraini: una decisione da cui il Capo di Stato di Kyiv – proprio a causa dell’isolamento internazionale in cui si ritrova – difficilmente saprà sottrarsi: con ripercussioni gravi per tutta l’Europa. L’80% del gas russo inoltrato ai Paesi UE transita oggi per i gasdotti ucraini i quali, se controllati da Mosca, inasprirebbero il monopolio energetico del Cremlino sul Vecchio Continente.
A soffrire maggiormente dalla realizzazione di tale scenario sarebbe in primis l’Italia: con accordi già firmati, la Russia ha rilevato la gestione totale e parziale delle condutture di Slovenia, Austria e Slovacchia – oltre che di Germania e Francia – e qualora anche le infrastrutture energetiche dell’Ucraina cadessero nelle mani di Mosca, l’Italia sarebbe costretta a fare i conti con la dipendenza non solo da un unico fornitore di gas, ma anche da un solo proprietario dell’itinerario attraverso il quale l’oro blu e importato: un monopolio fortissimo, che strozzerebbe la già fragile economia del Belpaese.
Matteo Cazzulani
LA RUSSIA LASCIA L’UCRAINA A SECCO DI GAS
Come preannunciato poche ore prima, il monopolista russo, Gazprom, ha trasferito il trasporto di oro blu riservato agli acquirenti Occidentali dalla tratta ucraina a quelle settentrionali: attraverso la Bielorussia e il Mar Baltico. La mossa è dettata dalla volontà di Mosca di impadronirsi dei gasdotti di Kyiv per unificare le proprie condutture con quelle già pre-acquisite in Unione Europea, e, così, mantenere la propria egemonia energetica, e politica, sul Vecchio Continente, l’Italia in primo luogo. L’Europa Centrale si ribella alla politica energetico-imperiale del Cremlino
“Il transito del gas russo diretto in Europa per il territorio ucraino sarà presto pari a zero”. E’ con queste parole che giovedì, 23 Febbraio, il rappresentante del monopolista statale energetico russo Gazprom, Segej Kuprijanov, ha lanciato l’ennesimo attacco mediatico all’Ucraina e, de facto, ha riaperto il contenzioso per il gas tra Mosca e Kyiv.
Secondo Kuprijanov, il totale sfruttamento dei programmi infrastrutturali di Gazprom – di quelli realizzati e di quelli ancora in cantiere – permetteranno alla Russia di escludere il territorio ucraino dall’itinerario attraverso il quale Mosca invia il proprio oro blu agli acquirenti europei.
Nello specifico, Kuprijanov ha fatto riferimento al Nordstream – gasdotto sul fondale del Mar Baltico costruito dai russi per rifornire direttamente la Germania e bypassare Paesi politicamente invisi al Cremlino, come Stati Baltici e Polonia – e al gasdotto Jamal-Europa, che collega il territorio russo a quello tedesco transitando per Polonia e Bielorussia.
Come successivamente rilevato dall’autorevole Interfax, il flusso di gas attraverso il Nordstream sarebbe stato già incrementato a spese di quello del Jamal-Europa che, secondo i piani esposti da Kuprijanov, è stato liberato per supplire alla rinuncia dello sfruttamento della conduttura Urengoj-Pomary-Uzhhorod che attraversa tutto il territorio ucraino, e dalla quale transita l’80% del gas che Gazprom vende agli acquirenti occidentali, tra cui l’Italia.
Oltre all’immediato isolamento energetico dell’Ucraina, la Russia ha alzato la posta anche per il futuro. Sempre giovedì, 23 Febbraio, il Presidente russo, Dmitrij Medvedev, ha ordinato al Capo di Gazprom, Aleksej Miller, di accelerare i tempi per la costruzione del Southstream: gasdotto sottomarino che, similmente al Nordstream, ha lo scopo di rifornire di gas russo direttamente l’Europa Occidentale, bypassando Stati ritenuti ostili al Cremlino come Romania, Moldova e, per l’appunto, l’Ucraina.
Pronta la risposta del Primo Ministro ucraino, Mykola Azarov, che dinnanzi alle minacce di isolamento energetico provenienti dalla Russia, si è detto comunque ottimista, e si è detto sicuro di trovare un’uscita dall’intricata situazione.
“I russi hanno la possibilità di sfruttare appieno il nostro sistema infrastrutturale energetico – ha dichiarato Azarov – se poi costoro hanno intenzione di buttare del danaro in progetti incerti che facciano pure”.
Secondo diversi analisti, Azarov – più o meno volutamente – non avrebbe colto la vera ragione della dura posizione presa dai russi. Con le minacce di isolamento energetico, accompagnate dalle accuse di appropriazione indebita del gas destinato agli acquirenti occidentali – che di recente Mosca ha mosso a Kyiv per mascherare il taglio delle forniture verso l’Europa: volutamente attuato per incrementare la pressione politica nei confronti degli ucraini – la Russia intende costringere l’Ucraina a cedere la gestione totale o parziale dei propri gasdotti.
Consapevole di non potere soddisfare la crescente domanda di gas da parte dell’Europa, ed intenzionata a mantenere la propria egemonia energetica sul Vecchio Continente, Mosca ha deciso di puntare sul controllo delle infrastrutture dell’UE, così da risultare determinante non solo nella compravendita di oro blu, ma anche nel suo trasporto attraverso l’Unione Europea.
Accordi in tale direzione sono già stati firmati con Germania, Francia, Slovenia, Austria e Slovacchia: per questo, il controllo dei gasdotti dell’Ucraina rappresenta per la Russia una mossa strategica, necessaria per unire le proprie condutture a quelle già controllate nei Paesi UE.
Tale scenario comporterebbe gravi conseguenze in primis per l’Italia, che, già fortemente dipendente dal gas della Russia, si troverebbe costretta a fare i conti con un monopolista che, otre alle materie prime, controlla anche l’intero tragitto dei gasdotti da Mosca al Tarvisio.
Secondo diversi politologi, le possibilità di resistenza dell’Ucraina sono minime. Alla ricerca di uno sconto sulla bolletta del gas, e sempre più isolato a livello internazionale – sopratutto dopo la repressione politica scatenata contro esponenti dell’Opposizione Democratica, tra cui la sua Leader, Julija Tymoshenko – il Presidente ucraino, Viktor Janukovych, sarà presto costretto a cedere al diktat di Mosca.
Peraltro, Julija Tymoshenko – nota in Occidente per avere guidato nel 2004 il processo democratico passato alla storia come Rivoluzione Arancione – è stata condannata al carcere proprio per avere firmato accordi energetici con la Russia con cui, pur accettando un tariffario oneroso, nel Gennaio 2009 ha garantito la sovranità dell’Ucraina sui propri gasdotti, e l’afflusso di gas in Unione Europea.
Polonia e Romania si ribellano alla Russia monopolista
Venuta meno l’Anima della rivoluzione arancione, altri sono gli enti, e i politici, che si oppongono alla politica imperiale del monopolista russo. Martedì, 22 Febbraio, il colosso energetico polacco PGNiG ha aperto un contenzioso con Gazprom presso l’Arbitrato Internazionale di Stoccolma per richiedere la revisione di un contratto che lega Mosca a Varsavia dal 1996 e che, ad oggi, obbliga la Polonia a onorare tariffe più care di quelle imposte al resto dei Paesi dell’Unione Europea.
Nello specifico, PGNiG ritiene ingiusti, e politicamente motivati, gli sconti concessi da Gazprom alle principali compagnie dei soli Stati alleati della Russia, come Francia, Germania, Slovenia e Grecia. Questi ribassi, de facto, rendono la bolletta dei Paesi dell’Europa Centrale paradossalmente più salata rispetto a quella applicata a soggetti geograficamente più lontani dal territorio russo.
A reagire è stata anche la Romania. Su iniziativa del Presidente in persona, Traian Basescu, è stata avviata una campagna di ricerca di giacimenti domestici che, sempre martedì, 22 Febbraio, si è conclusa con successo: le compagnie Exxonmobile e OMV Petrom hanno individuato un serbatoio di gas nel mezzo del Mar Nero che consentirebbe a Bucarest un’autonomia energetica di tre anni.
“Cerchiamo di superare l’inverno gelido contando sul gas che siamo obbligati per contratto ad acquistare dalla Russia – ha dichiarato Basescu, come riportato dall’autorevole Mediafax – ma la Romania deve trovare forme alternative per superare le emergenze climatiche”.
Matteo Cazzulani
VLADIMIR PUTIN PROMETTE IL RIARMO DELLA RUSSIA
Nel sesto articolo dedicato al programma elettorale del Primo Ministro russo per le prossime elezioni presidenziali pubblicato sulla stampa locale, il principale candidato promette maggiori spese per l’acquisto di armamenti in chiave anti-Occidentale. Le recenti provocazioni nei confronti dell’Occidente e le precedenti promesse elettorali di una Federazione Russia che appare sempre più imperiale e monopolista
400 missili balistici intercontinentali, 28 mezzi terrestri, 50 navali, 100 apparati cosmici, 600 aerei, 28 batterie di missili di categoria S-400, e 10 di categoria Iskander-M. Queste sono le cifre che il Primo Ministro russo, Vladimir Putin, ha promesso per il rafforzamento militare della Russia in caso di vittoria alle prossime elezioni presidenziali, la quale, stando alla caratura degli avversari, e alla mancata ammissione di candidati seriamente di opposizione, appare sempre più certa.
Nell’articolo “Essere forti – garanzie di sicurezza nazionale per la Russia”, pubblicato sul giornale filo-governativo Rosijskaja Gazeta, Putin ha evidenziato come “la crisi della finanza internazionale abbia rinvigorito la tentazione di risolvere i propri problemi a costo degli altri” e, per questa ragione, Mosca non possa trascurare la sua effettiva debolezza in campo militare.
Secondo il Primo Ministro, già dal prossimo anno le uscite per l’esercito incrementeranno fino a 760 miliardi di dollari: il doppio di quanto stanziato finora a bilancio. A compensare tali uscite, sempre secondo l’articolo di Putin, sarà la professionalizzazione delle Forze Armate, con un taglio progressivo dei soldati assunti a contratto.
Citando le parole di Putin, “la manovra non è da leggere come una militarizzazione del bilancio, bensì come una misura necessaria per mantenere il ruolo da protagonista della Russia nel Mondo, modernizzare il Paese, ed ivi costruire la democrazia”. Per questa ragione, la maggior parte degli armamenti sarà prodotta dall’industria russa, mentre sul mercato estero saranno acquistate solo armi ad alta tecnologia.
Alla pars construens, Putin ha aggiunto l’identificazione della principale minaccia per la Russia nello Scudo Spaziale USA in Europa: un progetto che, tuttavia, ha perso la sua connotazione originale, e che oggi è ridotto ad una struttura innocua: incapace di aggredire alcun bersaglio.
Concepito dall’Amministrazione Bush per preservare l’Occidente da minacce balistiche provenienti da est, il sistema di difesa anti-missilistico ha previsto l’installazione di una postazione radar in Repubblica Ceca e il dislocamento di una batteria di missili Patriot in Polonia.
Nel 2009, la neo-eletta Presidenza Obama ha revocato gli accordi già firmati con i due Paesi europei, contestualizzato lo Scudo Spaziale nell’ambito della NATO, e varato una nuova versione più soft con postazione radar in Romania e intercettori, privi di testata, posizionati a rotazione in Romania, Polonia e Turchia.
Secondo alcuni esperti russi, le promesse militari di Putin sono difficili da realizzare a causa delle troppo esose somme preventivate. Inoltre, già in passato simili proclami sono stati illustrati a gran voce dallo stesso Putin, senza che ad essi sia seguita un’effettiva attuazione. Tuttavia, occorre sottolineare come di recente si siano verificati casi che certificano la rinata aggressività da parte di Mosca nei confronti dell’Occidente.
Il 23 Novembre, in risposta al varo della versione morbida dello scudo spaziale NATO, il Presidente attualmente in carica, Dmitrij Medvedev, ha proposto la speculare installazione di un radar e il dislocamento di intercettori Iskander – dotati di capacità aggressiva – nell’enclave di Kaliningrad: tra la Polonia e la Lituania.
Il 18 Ottobre 2011, veivoli dell’esercito russo hanno sorvolato lo spazio aereo al confine con Lettonia, Estonia e Finlandia, dove non sono presenti né apparati missilistici, né insediamenti dell’esercito: secondo il codice militare, la manovra è una pura dimostrazione di forza, al punto da aver costretto i caccia dell’Alleanza Atlantica ad innalzarsi in volo per scortare gli aerei russi.
Stabilità, lotta all’immigrazione, maggiore autonomie locali, e sostegno alla procreazione
Quello pubblicato sulla Rosijskaja Gazeta non è che il sesto degli articoli con cui Putin ha esposto le principali linee-guida del suo programma elettorale. Il 16 Gennaio, sulle colonne dell’Izvestija, il Primo Ministro ha sottolineato i progressi raggiunti dalla Russia sotto il suo premierato e le sue precedenti presidenze – dal 2000 al 2008 – ed ha evidenziato come per la Russia sia necessario il raggiungimento della stabilità economica e politica.
Il 23 Gennaio, sulle colonne della Nezavisimaja Gazeta, Putin ha esposto la sua politica nazionale, basata sulla realizzazione di “un blocco multietnico omogeneo cementato attorno al nucleo russo”. Nell’ambito di quello che è stato definito “patriottismo civico”, il Primo Ministro ha preventivato regole più severe per gli immigrati – con tanto di esame obbligatorio di lingua russa – e punizioni per i clandestini.
Il 30 Gennaio, nelle pagine del giornale Vedomosti, è stata la volta della politica economica, tra le cui priorità Putin ha individuato la sfera energetica, spaziale, chimica, nano tecnologica, farmaceutica, chimica e l’aviazione, assieme alla necessità di una lotta alla corruzione e di misure contro il lusso e le disparità.
Il 6 Febbraio, con un articolo pubblicato sul Kommersant”, Putin ha promesso una riforma istituzionale, con la concessione di maggiore autonomia fiscale e l’introduzione dell’elezione diretta dei Presidenti dei singoli Stati della Federazione Russa.
Infine, il 13 Febbraio, sulla Komsomol’skaja Pravda, Putin ha affrontato l’ambito sociale, in cui ha rigettato l’aumento dell’età previdenziale, sottolineato la necessità di valorizzare una “aristocrazia operaia” altamente qualificata, e promesso incentivi alle famiglie con più di tre figli.
Matteo Cazzulani
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